
Entro la fine dell’anno sarà presentata in Regione la domanda per il riconoscimento della DOC Friuli Venezia Giulia. Sono anni che se ne discute e questa volta pare che il progetto sia in dirittura d’arrivo. A scanso di equivoci diciamo subito che la nuova DOC regionale non andrà a sostituire le attuali DOC che rimarranno tali e quali, sarà il produttore a scegliere quale DOC utilizzare quando immette il vino sul mercato; la nuova DOC ha quindi una mera funzione commerciale. Tutto facile quindi, tutti d’accordo? Niente affatto! Ad esempio, il Consorzio Collio e Carso al momento non ritiene di aderire al comitato che presenterà la domanda. Questa posizione mi ha molto incuriosito e conferma alcuni dubbi che ho in merito alla nascita di questa DOC; ovvero che ci possa essere un appiattimento della qualità verso il basso che può essere facilmente mascherata sotto le spoglie della DOC regionale. Fa poi impressione la “liberalizzazione” dei contenitori prevista dal disciplinare che consente di utilizzare la bag in a box. Sappiamo tutti che alla fine il vino deve essere venduto e che l’uso della bottiglia non è sinonimo di qualità, ma per me che sono un inguaribile romantico, anche solo l’ipotesi di mettere, non dico un grande vino ma semplicemente un buon vino nella bag in a box o nel brik è davvero offensiva; soprattutto dopo tutte le fatiche fatte per consentire al vino friulano di diventare il prodotto di eccellenza che è oggi, mi sembra uno spaventoso passo indietro. Per approfondire la questione e per capire le ragioni del rifiuto dei produttori del Collio e Carso, ho posto la questione a due grandi nomi come Nicola Manferrari, Roberto Felluga, ecco cos’è emerso.
Roberto Felluga
Vorrei fare una premessa: non ricordo quando, all’incirca una ventina di anni fa, le nostre istituzioni, sollecitate non so da chi, avevano proposto di anticipare al nome di ogni denominazione la parola Friuli. Il Collio, vuoi anche per la sua eterogeneità, non aveva accettato tale proposta. Contemporaneamente però avrebbe considerato e ben visto la nascita di una Doc Friuli di base, per tutta la produzione regionale. Tale iniziativa venne anche approvata da una delibera consigliare del Consozio Collio, ma poi, le nostre istituzioni non trovarono interessante questo progetto. Allora, Presidente del Consorzio Collio era il Conte Douglas Attems.
Ora, sentire il nostro assessore ed alcuni presidenti di altre denominazioni che accusano il Consorzio Collio di essere disfattista e di non avvallare la proposta di creare una Doc Friuli, la trovo una cosa alquanto singolare. Non corrisponde a verità che il Consorzio Collio non sia stato e non sia d’accordo sulla nascita di una Doc Friuli, tant’è che aveva presentato un suo disciplinare.
In verità non è d’accordo di creare una Doc Friuli con un disciplinare come l’attuale che propone una produzione troppo ampia (erano partiti con 150 quintali per ettaro e d’ora sono arrivati a 140 con la possibilità, in certe annate, di aumentare la raccolta del 20%). Troppo ampia anche la tipologia di vitigni, inclusi gli autoctoni, ed infine la possibilità di utilizzare, come recipienti, i bag in box o brik.
Potrei comunque continuare ad elencare altre considerazioni negative su tale disciplinare, come è stato proposto oggi da alcune realtà del settore ed avvallato dal nostro assessore, ma mi dilungherei troppo. Mi fermo qui, ma vorrei evidenziare ancora alcuni punti:
- L’assessore Violino vorrebbe convogliare soprattutto (così si è espresso) le risorse pubbliche sul marketing della Doc Friuli; immaginiamoci se in Toscana decidessero di non appoggiare principalmente la Doc Chianti o la Doc Montalcino;
- Avrei gradito che il nostro assessore, così come altri produttori cha appoggiano questo tipo di disciplinare per la Doc Friuli, avessero fatto fare un’ indagine a livello mondiale sulle tendenze di mercato dei prossimi anni (se è stata fatta, io non l’ho mai vista). Non si rendono conto che, partire già con un progetto orientato non sulla qualità, ma solo sulla quantità e sul prezzo, in competizione con molti paesi emergenti e con i nostri costi di gestione, sarebbe un suicidio annunciato. Capisco che ci possa essere un progetto sul vino quotidiano, ma comunque ci deve sempre essere una qualità ed un’immagine da proporre;
Ecco perchè il Collio ha detto no a questa Doc Friuli.
Ed infine, anche se l’argomento non è direttamente correlato a quanto sopra scritto, sarei curioso di sapere dall’assessore, visto che sta spendendo i dieci milioni di euro per il Friulano, senza un progetto mirato (ad esempio nel 2011 ha investito sul Noè; il prossimo anno ha già dichiarato al Comune di Gradisca d’Isonzo che non stanzierà un euro per il 2012), se sa cosa pesa questo vitigno sull’economia vitivinicola del Friuli Venezia Giulia (per conoscenza gli ettari di tocai friulano in Italia sono diminuiti da 4699 ettari nel 2000 a 1419 nel 2010) se ha chiesto ai produttori se sono d’accordo di investire in promozione su questo vitigno o magari più incisivamente sul altre varietà. Il nostro assessore aveva già chiesto all’inizio del suo mandato indicazioni ad alcune aziende che hanno più visibilità e successo sul mercato (quelle che tengono alta la bandiera del vino friulano) su quali punti potevano essere avviati dei progetti di promozione. Alla fine di tutti i discorsi, Violino voleva sentire le cantine sociali; purtroppo, a parte alcune realtà che lavorano bene, sappiamo che il mondo delle cooperative vitivinicole nella nostra regione non ha ottenuto grandi risultati.
Nicola Manferrari
Narra la Genesi che gli uomini un tempo fossero capaci di comprendersi parlando fra loro la stessa lingua. Vollero allora costruire una torre tanto alta da raggiungere il cielo. Disse il Signore: “essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; (…) ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro”. E come si sa, la Torre di Babele rimase incompiuta. Mi viene ora a mente un secondo pensiero che fu del grande Luigi Veronelli: “Il vino è il canto della terra verso il cielo”. Più modestamente, dopo le due autorità precedenti, il terzo pensiero è mio: il cielo potrebbe non riuscire a udire il canto della nostra terra se qualcuno ci confonde il linguaggio.
Infatti, a seguire il dibattito nato intorno al progetto di una DOC Friuli, si prova la sensazione sgradevole di assistere a un incomprensibile dialogo fra sordi. Ecco che quando le parole sono talmente usurate da suonare incomprensibili sorge la necessità delle definizioni. Vediamo cosa significa l’acronimo DOC o meglio DOP (denominazione di origine protetta che ha ereditato la vecchia DOC) ai sensi della normativa italiana. D.L 61/2010 Capo 1 Art. 1: “Per denominazione di origine protetta (DOP) dei vini si intende il nome geografico di una zona viticola particolarmente vocata utilizzato per designare un prodotto di qualità e rinomato, le cui caratteristiche sono connesse essenzialmente o esclusivamente all’ambiente naturale ed ai fattori umani.”
La DOP Friuli si propone di designare i vini ottenuti da gran parte del territorio regionale. Dal momento che sembrerebbe non sussistere in regione una pratica vinicola unica e caratterizzante le produzioni viticole soggette alla nascitura denominazione (pensiamo ad esempio al Marsala) ma piuttosto una pluralità di tecniche di vinificazione diverse fra loro e peraltro comuni a molte altre zone vinicole di fuori regione, non possono essere i “fattori umani” a caratterizzare la qualità dei vini prodotti. Dunque il compito di assolvere al requisito alla base della normativa non può che essere affidato ai fattori ambientali che, banalizzando, sono terreno e clima. Parliamo di una zona ampia, orograficamente non omogenea fatta di pianura e colline ove peculiari caratteristiche microclimatiche unificanti sono da escludersi così che il carattere climatico è simile a quello di ampie zone del pianeta collocate a una simile latitudine. Ecco che restano solamente i suoli. E qui, di nuovo banalizzando e trascurando le aree a ridosso del mare, possiamo dire che esistono nel Friuli del vino almeno tre tipi di suoli molto diversi fra loro. Una grande pianura alluvionale fatta di ciottoli tondi, delle colline di marna e arenaria originatesi sul fondo del mare, dei suoli carsici, quando il Carso è studiato persino dai bambini a scuola come fenomeno geologico unico. Mi chiedo come ragionevolmente si possa sostenere che suoli così differenti fra loro possano garantire una qualità superiore “le cui caratteristiche sono connesse essenzialmente o esclusivamente all’ambiente naturale”.
La legge si propone di tutelare il consumatore certificando l’originalità del prodotto proteggendolo così da eventuali imitazioni che possano trarlo in inganno. In sostanza si mette a servizio del pubblico affinché questo possa ritrovare un vino avente precise caratteristiche legate a un luogo. Dunque si comprende che l’intento di creare una DOP regionale nasce di per sé da una bugia. Potrebbe essere che gran parte dei protagonisti, così come i costruttori della torre di Babele, abbiano smarrito il senso delle parole e dunque agiscano in buona fede, tuttavia la sostanza non cambia così come le conseguenze a carico del consumatore e dei produttori di buona volontà.
Infatti la legislazione ha inteso proteggere situazioni come quella sopra descritta con lo strumento della indicazione geografica protetta (IGP) con la quale “si intende il nome geografico di una zona utilizzato per designare il prodotto che ne deriva e che possieda qualità, notorietà e caratteristiche specifiche attribuibili a tale zona” dove il legame richiesto fra carattere del prodotto e ambiente naturale di origine è molto più labile.
Molti concordano che debba essere questa nuova denominazione Friuli una DOP “di ricaduta”, ovvero una sorta di pattumiera caratterizzata da griglie più ampie nella quale far convergere tutte le produzioni meno adatte a essere designate con le DOP principali. In questo caso si tratterebbe di uno strumento tecnico, comunque di una bugia, ma intelligente. E in tal caso vietare l’uso di contenitori alternativi andrebbe in contrasto con l’esigenza di veicolare sul mercato le eccedenze della Regione. Ma ecco fra politici, produttori e sommelier l’insurrezione dei puristi, degli indignati, degli etici. “Come si può pensare di bruciare il prestigioso brand “Friuli” (qualcuno nel mondo lo conosce?) per caratterizzare un prodotto di qualità inferiore?” si dice “mettiamo paletti più stretti, pretendiamo rese più basse, chiediamo qualità per il vino che porterà il nome della nostra Regione”. E potrebbero in parte pure avere ragione ma il problema sta tutto nella bugia iniziale, si può far fare una buona figura alla Regione associandone il nome a una bugia? Ma poi, bugie a parte, le DOP principali che ci starebbero a fare? Se, ragionando per assurdo, tale DOP dovesse davvero assurgere a portabandiera enologica regionale inevitabilmente entrerebbe in concorrenza con le altre DOP sottraendo loro visibilità e prodotto finendo quindi per indebolirle, già che una carenza di massa critica di qualità è il male endemico delle nostre denominazioni. Dunque, con il linguaggio s’è forse un poco smarrito il senno e sembra ci si dimentichi che DOP di collina come Collio, Carso e Colli orientali del Friuli sono lì per aiutare il consumatore a riconoscere vini prodotti da uve che all’origine possono costare anche dieci volte più di altre. Forse oltre al linguaggio e al senno, alcuni potrebbero aver smarrito pure quel buon senso contadino un tempo patrimonio di tutti o quasi gli abitanti di questo ex agricolo Paese secondo cui se si abbandonano all’incuria i suoli di montagna e di collina in luoghi fortemente antropizzati si va incontro a una sicura devastazione ambientale. Invece nelle nostre colline orientali si è verificato un miracolo che in altri luoghi della penisola non è accaduto: alcuni produttori, con la caparbietà propria dei contadini, hanno posto le basi per poter competere grazie a una qualità superiore riconosciuta con prodotti di altre zone molto meno costosi. Infatti, un contadino di montagna e di collina, a differenza di altri operatori economici, produce oltre che merci, da cui può trarne un reddito collocandole sul mercato, servizi ambientali offerti gratuitamente alla collettività. Ecco, il senso di una DOP vera è proprio questo: proteggere dalle devastazioni di ogni tipo luoghi fragili con le loro produzioni per renderli fruibili a chiunque lo desideri. Sarebbe bello che fra tanti, almeno la giunta del “montanaro” Tondo fosse capace di comprendere tali ragioni.