Si fa presto a dire autoctoni


Di Irene Graziotto

grappolo Foja Tonda

Autoctoni qui, autoctoni là. Si fa un gran parlare di autoctoni e da qualche giorno a questa parte  ancora di più grazie ad un articolo del Wine Spectator in cui Bruce Sanderson e Alison Napjus ci vengono ricordare che gli autoctoni sono fra le grandi potenzialità dell’Italia enoica – come se ogni volta attendessimo l’avvallo estero per crederci davvero alle ricchezze che abbiamo. En passant, ho di nuovo l’impressione che il Belpaese sconti un sentimento di inferiorità psico-enologica, dovuto certamente ad una mancata conoscenza linguistica dell’inglese (sopperita in parte e solo recentemente) che non ci permette di dialogare alla pari col mercato estero ma anche, credo, al fatto che manchi ancora un Master of Wine italiano: una figura che goda di un’autorità riconosciuta e sappia farsi portavoce dell’Italia.

Torniamo agli autoctoni: se ne parla ma si parlerebbe di animali rari, da tutelare, da “piccolo è bello”. Una logica che non convince Albino Armani, alla guida dell’omonima azienda che ha riportato in vita il Foja Tonda ma che invece di trasformarlo in un proprio marchio registrato ne ha fatto una Doc, una realtà territoriale (l’approfondimento sul prossimo numero de Il Sommelier Veneto).

“Gli autoctoni non possono essere solo iconici, devono avere un valore commerciale, e non per un’azienda sola, ma per l’intero territorio”. Secondo Armani – a capo dell’Associazione Temporanea di Scopo (Ats) “Produttori vitivinicoli trentini, friulani e veneti” che sta seguendo l’iter di approvazione della nuova Doc – il lavoro sugli autoctoni andrebbe fatto su tutti i territori. È per questo che accanto alla creazione della Doc interregionale Pinot Grigio, l’ATS sta portando avanti anche istanze parallele come, ad esempio, il riconoscimento della Ribolla Gialla quale uva unicamente friulana la cui coltivazione sarà possibile esclusivamente nelle province di Pordenone, Udine e Gorizia. Secondo Albino infatti “quando una cosa non funziona è perché il territorio non la riconosce e in questo il mandato dei Consorzi è di fondamentale importanza”.

Ma gli autoctoni vengono richiesti? Sì e no: dipende dai mercati e dalle occasioni: il turista in visita sul territorio chiede il prodotto locale e quindi accanto al cibo sarà disposto ad aprirsi anche a varietà della zona. E qui fondamentale si rivela la mediazione del settore ricettivo e la capacità di promuovere non solo sé stesso ma anche il territorio, in un gioco di squadra sulla cui efficacia non serve che mi dilunghi. Penso in particolare ad un’importante struttura asolana che al momento della mia visita – un anno fa– non aveva in carta un singolo Asolo Prosecco Docg ma solo Conegliano Valdobbiadene Docg. Come ci si può definire portavoce di un territorio se siamo i primi a non credere nei suoi prodotti e di quelli più rappresentativi quali sono gli autoctoni? Gli esempi virtuosi sono tanti, ma a volte è più facile che sia il piccolo ristoratore a farsene rappresentante che non la ristorazione di alto livello, a meno di non aver fatto una scelta di “ascolto del territorio” come accade nelle carte di – penso ai primi tre che mi vengono in mente – Feva, Osteria alla Chiesa e Tre Quarti, dove accanto agli immancabili si trovano anche i Colli Berici nel primo, l’Asolo Docg nel secondo e il Durello nel terzo.

Foglia Foja Tonda

Penso poi che per gli autoctoni valga il detto “Nemo propheta in patria”. Prendiamo il Nerello Mascalese: più conosciuto altrove che in terra natìa: guardate la carta di un ristorante medio italiano. Eppure in America va alla grande, come mi conferma Giammario Villa di Vinomatica che si occupa di importazione e promozione del vino italiano. “Mi limito a parlare della California:  negli ultimi 5 anni abbiamo visto sicuramente un’apertura importante su Etna, Marche Bianco (Pecorino e Passerina più che Verdicchio), autoctoni più classici come il Soave, Gavi, Prosecco – non dimentichiamoci che la Glera è un autoctono su cui 20 anni fa avrebbero scommesso in pochi, ndr –ma anche nuovi performanti come i vini liguri (Pigato e Vermentino). E poi Taurasi, Primitivo di Manduria o un tradizionale Langhe ma anche abbiamo nuovi emergenti come Valle d’Aosta (Fumin, Petite Arvine), vini vulcanici della Campania (Ischia, Vesuvio, etc) o vini delle alpi come Valtellina o vini a base Spanna del nord Piemonte. E poi classici del Friuli (Friulano in particolare) o della Emilia Romagna (Lambrusco secco o metodo classico, Romagna Sangiovese o tra i “nuovi” Burson da uve Longanesi”.

Quello sopra è un elenco degli autoctoni che stanno destando attenzione, un elenco magari anche un po’ lungo: ed è solo una piccola parte di quelli che possiede l’Italia.

Mi concentro nello specifico sull’Etna, dove l’acquisizione da parte di Giovanni Rosso di una decina d’ettari di vitati ha fatto accendere anche i riflettori della stampa italiana: un barolista che compra su un vulcano non è cosa da tutti i giorni. La stampa estera tiene sott’occhio la zona da lungo tempo: Eric Asimov, penna enologica del NY Times, scrive già nel 2012 un’importante e denso articolo sull’Etna e il Nerello Mascalese.

Se consideriamo la stampa estera, USA in particolare, come antesignana dei trend di mercato, l’attuale attenzione sugli autoctoni lascia bene sperare. Nel frattempo, speriamo che l’Italia arrivi preparata: con una sempre maggiore padronanza della lingua del commercio (sia essa inglese o cinese) e dei social, con un Master of Wine e, soprattutto, con la giusta autostima.

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