
Elisabetta Foradori è bellissima, la sua è una bellezza antica, d’altri tempi; è la rappresentazione emblematica dell’orgoglio di essere donna, contadina e viticoltrice, un manifesto politico per questi tempi così difficili, dove si sta perdendo sempre di più il senso della fatica, dell’attesa; tempi dove molti vogliono tutto e subito e lo vogliono con ogni mezzo.
Elisabetta Foradori invece ha lavorato (e lavora) duramente; da giovanissima, alla scomparsa del padre, ha preso in mano l’azienda di famiglia è l’ha portata ai vertici dell’enologia nazionale con un grande vitigno come il Teroldego, che però, negli anni in cui Elisabetta cominciava la sua avventura, sembrava aver perso le sue potenzialità; con tenacia Elisabetta ha iniziato un grande lavoro di ricerca per il recupero delle biodiversità del vitigno, fino ad arrivare all’individuazione di 15 biotipi di Teroldego che utilizza per i reimpianti, garantendo così un’elevatissima qualità ai suoi vini.
La biodinamica
I vini Foradori seguono i principi della biodinamica, ma qui la biodinamica non è un dogma, è “solo” il frutto di un percorso di ricerca iniziato molti anni confrontandosi con alcuni viticultori francesi, in particolare con il produttore alsaziano Marc Kreydenweiss; Elisabetta dice che la “biodinamica serve per aiutare la vigna a trovare e mantenere l’equilibrio in sintonia con la natura e per far esprimere finalmente al vino la profondità del carattere della propria terra”.
Breve storia del Teroldego
E’ del 1383 il primo documento scritto in cui appare il nome Teroldego, anno in cui un certo Nicolò da Povo s’impegnò a corrispondere, a mo’ d’interesse, una botte di Teroldego a una certa Agnese che gli aveva prestato del denaro. Fra il Trecento e il seicento, il Teroldego veniva coltivato dal Campo Rotaliano a Rovereto. Nel Cinquecento se ne parla a Mezzolombardo. Nel Campo Rotaliano s’insediò stabilmente, mentre altrove finì con lo scomparire. Le fonti presentano ripetuti accenni al “grande potenziale” insito in questo vitigno che nel frattempo è assai più resistente anche alla peronospora (1890) e alla filossera (1912).
La zona di produzione attuale è molto limitata e comprende appena 400 ettari che per il 73% danno vini D.O.C. Il vigneto del Campo Rotaliano si è frammentato nel tempo in molti piccoli appezzamenti lavorati con cura estrema. La terra è poca ed è preziosa.
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