
L’obiettivo di ogni imprenditore – specie se di medie o piccole dimensioni – dovrebbe essere quello di collocare i propri prodotti in una nicchia il più possibile ristretta, ovvero tale da permettere loro di emergere e di sottrarsi alla concorrenza. Ognuno cioè, dovrebbe cercare il proprio “Oceano Blu” – cit. da Strategia Oceano Blu, di Renee Mauborgne e Kim W. Chan – , e lasciare “L’Oceano Rosso” – ovvero i campi già esplorati e le strade già percorse e sdoganate – alle multinazionali, o comunque alle imprese di grandi dimensioni, le cui strategie di promozione e comunicazione sono smisuratamente più potenti, così da rendere la concorrenza meno temibile. Nel caso specifico della produzione agricola e della viticoltura, secondo la mia esperienza ogni imprenditore, al momento di immaginare e di pianificare i propri obiettivi, deve anzitutto fare i conti con il suo ambiente di produzione, e capire in base alle caratteristiche di quest’ultimo quali siano le strade più efficaci da seguire per emergere. Se il terroir dei propri vigneti – inteso come la particolare ed ogni volta unica interazione tra fattori climatici e proprietà dei suoli – possiede una buona potenza espressiva ed è in grado di trasmettere la sua fedele impronta nel vino, tutte le scelte agronomiche ed enologiche dovranno essere improntate a valorizzare la sua capacità di esprimersi, così da ottenere vini irripetibili, la cui degustazione non si limiti a dare soddisfazione sensoriale ma permetta di viaggiare nello spazio, e riportare chi assaggia ad un territorio ben determinato e ad una specifica filosofia di produzione. Viceversa, dove il terroir è più debole e non consente questi risultati, sarà opportuno lavorare sui vitigni coltivati, e far sì che il vino esalti al meglio i propri requisiti varietali.
Ciò premesso, ormai da qualche decennio in agricoltura, vuoi per ragioni di marketing, vuoi per una reale attenzione agli equilibri dell’ecosistema e al rispetto per la natura, è sorta l’esigenza di guardare al passato, e di limitare o eliminare del tutto il ricorso ai prodotti chimici e alle moderne tecnologie. Da qui, l’emergenza dei sistemi di coltivazione integrato, biologico e biodinamico, nonché una certa tentazione a tornare alla genuinità e alla semplicità del cosiddetto “vino del contadino”. A questo proposito, preciso subito che trovo legittimo al massimo grado lo sforzo di rispettare il più possibile l’integrità ed i ritmi spontanei dell’agroecosistema, e l’adozione di tutte le pratiche che siano utili ad ottenere questo obiettivo. D’altra parte, credo sia necessario non perdere mai di vista il risultato finale, ovvero la produzione di vini che siano non solo di qualità inattaccabile – requisito ormai indispensabile per resistere su qualsiasi mercato – ma anche in grado di soddisfare i sensi del consumatore e, se il territorio di produzione lo consente – perfino di emozionarlo. Se un vino ha difetti evidenti perché non sono stati utilizzati i mezzi ed i prodotti necessari a garantirne una adeguata conservazione ad esempio, non potrà essere venduto, e non sarà in grado di perseguire l’obiettivo di dare piacevolezza. Ciò si verifica molto di frequente nell’agricoltura biodinamica ad esempio, che, a fronte di pochissimi vini strepitosi, da spesso vita a prodotti imbevibili, che rispettano l’ambiente ma falliscono in pieno quella che dovrebbe essere la missione principale di ogni vino. Non dimentichiamo che la natura di per sé, senza l’intervento dell’uomo che è teso a garantire la propria sopravvivenza e che a volte ne addolcisce molti spigoli, sa essere anche molto cattiva e spietata. Nel caso del biologico invece, sappiamo che alcuni prodotti – lo zolfo ed il rame – sono ammessi dal regime in virtù del carattere endemico di alcuni parassiti della vite. Ora, in alcune annate con primavere molto difficili, può anche verificarsi che l’apporto nell’ambiente di prodotti forniti in prevenzione sia superiore a quello che avremmo avuto con l’utilizzo di alcuni sistemici nei momenti opportuni. Avremo quindi forse salvato i vini, ma fallito del tutto l’obiettivo di massima salvaguardia dell’ambiente.
Ciò che voglio dire, è che spesso chi si attiene ad una linea di coltivazione lo fa in modo un po’ intransigente. Questo atteggiamento, che forse può andare d’accordo con altri ambiti della propria esistenza, non si addice invece all’imprevedibilità dell’attività agricola, e alla fatica e alla flessibilità che essa richiede. In agricoltura – e particolarmente in viticoltura – una visione integralista non è a mio avviso mai consigliabile, ma credo sia di gran lunga più saggio modulare l’atteggiamento e le scelte in funzione delle sfumature e delle sorprese che il contesto impone. Ciò che credo permetta di rispettare davvero la natura al massimo, senza per questo rinunciare ad un buon prodotto finale, è un attento monitoraggio sia del clima che ogni stagione riserva, sia dell’evoluzione dei propri vini durante la loro permanenza in cantina; a seconda di ciò che ci troviamo di fronte, scegliamo poi la strada meno invasiva, che allo stesso tempo permetta però di salvaguardare la bontà del risultato. Il beneficio che la nostra attività deve apportare all’ambiente, non può essere infine solo teorico; affinché sia un contributo reale ed effettivo, e allo stesso tempo possa in maniera inequivocabile essere percepito dal consumatore e riconosciuto come un vero valore aggiunto del marchio, deve in qualche maniera essere misurabile, attraverso dei processi già esistenti, che permettono di valutare e certificare l’effettiva sostenibilità di un progetto aziendale.”
Roberto Cipresso
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