
Ci sono luoghi dove il cibo e il vino non vengono solo portati a tavola, ma vengono mediati, spiegati, resi più accessibili anche al pubblico non esperto. Un tassello imprescindibile se si vuole creare una vera cultura enogastronomica. “E non ce l’abbiamo già in Italia questa cultura?” chiederete voi.
Io sarei un po’ più scettica. È vero che abbiamo un ottimo potenziale ma la conoscenza dell’agroalimentare italiano è ben ristretta: qualche mese fa fece scalpore il caso degli olii di falso extravergine italiano. Ma come si fa a credere che un olio a tre euro possa essere un extravergine? A parte il prezzo ridicolo che non coprirebbe le spese di produzione – e che tuttavia potrebbe essere spiegato con una logica di grandi numeri e azioni di forza delle grandi catene sul piccolo produttore – ma l’aspetto organolettico? Colore, profumi, sapore? Sarebbe bastato quello per capire che i tali olii non potevano essere extravergine. Quindi o la gente non sa, oppure sa, chiude gli occhi e manda giù l’olio – di ricino, a questo punto. Oppure non vuole sapere (tesi comprovata anche dalle due ore di coda per il nuovo KFC di Arese per un pollo (quale pollo? allevato come?) fritto (in che olio? riscaldato quante volte?).
Qualora si trattasse invece della prima ipotesi, cioè di una conoscenza ristretta in materia di cibo e vino, ci sono luoghi dove si fa cultura. E la cultura del vino in un ristorante si fa in primis non con la carta dei vini ma con i vini al calice. Perché è dando la possibilità al consumatore di bersi un calice di un vino nuovo e sconosciuto – di cui non comprerebbe la bottiglia perché non la conosce – che si ampliano gli orizzonti.

Ecco perché trovarsi servito al calice un Damijan Podversic, Ribolla Gialla macerata 2011 è lungimiranza. Perché amplia gli orizzonti dei “non addetti ai lavori” e quindi, alla lunga, alza il livello medio della domanda, e non parlo solo di ventaglio di tipologie ma anche di qualità. Perché riporta alla mente i vini di una delle mostre migliori regioni enoiche, il Friuli, che in tanti in Italia sembrano aver dimenticato.
Se poi in carta dei vini oltre a grandi bottiglie di grandi produttori trovi anche grandi bottiglie di piccoli produttori (sbircio un Marko Fon giusto per fare il nome di uno che di bottiglie ne fa circa 5 mila l’anno) oltre ad una interessante presenza di denominazioni locali – dal Tai Rosso al Prosecco di qualità in un’epoca in cui tale bollicina va sì di moda ma è spesso anche sminuita – la lungimiranza trova conferma.
Ma qui la lungimiranza si trova anche sul piatto: non saprei definire altrimenti quel Ristorante a una Stella Michelin che offrisse un menù pranzo da due portate, bottiglia d’acqua, calice di vino, caffè e dolce a 20-25 euro. Perché l’accessibilità qui diventa anche economica. E con questo torniamo a Bomba, o meglio a Castelfranco Veneto, Ristorante Feva.
Irene Graziotto
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