Calabria: il pensiero meridiano tra vino, cibo e persone uniche


Calabria incantata e selvaggia, terra del ritorno necessario per il viaggiatore, giacimento di tesori enogastronomici inestimabili. Come altro definire Il Biscardino di Gino Marino a Cropalati, la Tavernetta dell’istrionico Pietro Lecce a Camigliatello? Poi il vino, antico e moderno al tempo stesso. Si va dal garagista pre silano Emilio Simone, ai cirotani Cataldo Calabretta, Francesco e Vincenzo Scilanga (Cote di Franze), passando per quel collettore di anime che è Dino Briglio Nigro e il suo l’Acino Vini. Dino condivide, a San Marco Argentano, cantina e sogni con Daniela De Marco e Giampiero Ventura e il loro nuovo progetto vitivinicolo Vinovì. Naturalmente cito solo persone e luoghi che ho visitato in viaggi recenti, consapevole che la Calabria è tanto altro. Arriva poi la nostalgia, conseguenza del rientro dal viaggio, che può essere smorzata attraverso la lettura di libri che alimentano i ricordi; capita così di imbattersi nel leggendario “Old Calabria” di Norman Douglas, ma, soprattutto, in “Lettere meridiane. Cento libri per conoscere la Calabria” di Francesco Bevilacqua.

Testo che ha in se vari passaggi rivelatori, anzi direi rivoluzionari, come ad esempio questo sul “Pensiero meridiano” che riporto integralmente: La felice espressione «pensiero meridiano» fu coniata da Albert Camus all’inizio degli anni Cinquanta, allorché nel capitolo conclusivo del suo L’uomo in rivolta, sotto un titolo siffatto, lo scrittore invocava un modo di pensare al quale il mondo contemporaneo non avrebbe potuto rinunciare ancora per molto. Modo di pensare che, richiamandosi allo spirito greco antico, pone al centro della riflessione il rapporto originario e profondo tra uomo e natura. Si intravede qui una contrapposizione tra due distinte concezioni del mondo: una nord europea, basata sulla rimozione del rapporto con il sacro e con la natura; l’altra sud europea, che propugna, invece, un intreccio armonico tra umano, divino e naturale. «Al nichilismo europeo, avvolto nelle tenebre dell’assolutismo storicista, Camus oppone dunque lo spirito mediterraneo, coi suoi richiami alla sacralità del mondo e della vita». In sostanza «il pensiero meridiano è la riscoperta di questo sud rimosso e il suo collegamento a una forma di vita non ostaggio della tecnica, capace di una misura». Intorno alla metà degli anni Novanta del secolo scorso, alcuni studiosi, tra cui Franco Cassano, Mario Alcaro, Piero Bevilacqua, Franco Piperno, si ritrovano nello sviluppare le tesi di Camus e propugnano un pensiero del «Sud che pensi il Sud». Il Sud diviene soggetto di pensiero proprio e dismette gli abiti dell’oggetto di pensiero altrui. È una rivendicazione di autonomia culturale, etica, spirituale innanzitutto e poi anche politica. Anche se non v’è traccia dei fumosi progetti separatisti e autonomisti che circolano nel Mezzogiorno d’Italia da alcuni anni. Il Pensiero meridiano ripudia il fondamentalismo economico e i processi di omologazione che accompagnano la globalizzazione, in favore di una ritrovata peculiarità locale del Sud, nella cultura, nella politica, nella ricerca di una identità. Bisogna smettere con il pensare che il Sud sia un non-ancora dello sviluppo, sostiene Franco Cassano, «occorre smettere di vedere le sue patologie solo come la conseguenza di un difetto di modernità. Bisogna rovesciare l’ottica e iniziare a pensare che probabilmente nel Sud d’Italia la modernità non è estranea alle patologie di cui ancora oggi molti credono che essa sia la cura». È necessario, invece, contrapporre, alla omologazione e allo sviluppo etero diretto, la rivitalizzazione delle culture locali, la reinvenzione delle radici storiche comuni, la riaffermazione delle proprie identità collettive. Insomma, l’idea è quella di creare per il Sud un percorso alternativo che punti su strategie di cooperazione regionale, beni comuni, risorse ambientali, specificità territoriali. Una rinascita in piena regola del «locale» in una relazione più equa con il globale. Per far questo, i fautori del Pensiero meridiano decostruiscono alcuni capisaldi della Questione meridionale.

La prima decostruzione riguarda il cosiddetto paradigma emulativo, per cui il Sud deve emulare il Nord ed essere oggetto, quindi, di uno sviluppo etero-diretto e assistito. Il Sud, viceversa, deve semplicemente chiedersi quale possa essere una strategia per migliorarsi a partire dalle ricchezze di cui già dispone. La seconda decostruzione concerne il paradigma della modernizzazione, che parte dal dogma dell’arretratezza economica e culturale del Sud. Il Sud non è «arretrato», ma solo non sviluppato secondo i canoni del Nord. È, invece, diverso, soprattutto perché ha saltato a piè pari tutto il lungo periodo della industrializzazione e conserva luoghi, valori, culture che quel processo, se ci fosse stato, avrebbe spazzato via.
Il Pensiero meridiano resta, sino a ora, l’unica originale e innovativa proposta di ripensare il Sud (e con esso la Calabria) e i suoi problemi a partire dal Sud stesso, di favorire un’assunzione di responsabilità diretta dei meridionali, per contrapporre alle fallimentari panacee industrialiste e sviluppiste, che hanno avuto il Sud come cavia, strategie che partano da forze e ricchezze endogene. E, quel che più conta, abiurando una buona volta ogni progetto etero diretto e assistito.

Ecco questo “Pensiero meridiano” mi è parso di sentirlo forte e vivo in tutte le persone che si occupano di vino e cibo e che ho avuto la fortuna di conoscere in queste due ultime estati in Calabria. Per rafforzare ancora di più il concetto e per continuare con gli approfondimenti, dopo l’articolo su Gino Marino e l’intervista a Dino Briglio Nigro, ho rivolto alcune domande a Daniela De Marco di Vinovì che, vista la sua storia di vita e i suoi studi, credo sia perfetta per continuare questa discussione.

Daniela De Marco

Daniela tu sei un’antropologa che da Roma, per motivi familiari, è dovuta ritornare in Calabria. Trovo molto romantico che un’antropologa si metta a fare vino: storia del vino e storia dell’uomo, a livello sociale, culturale ma anche simbolico e filosofico, sono intrecciate indissolubilmente.  Tu come arrivi al vino? Raccontami la storia di Vivavì e del sodalizio con Pasquale Perugini e Giampiero Ventura.

Si, l’ambito tematico dei miei studi è stato quello dell’antropologia culturale, percorso che ho intrapreso all’università Sapienza di Roma. A Roma ho vissuto per 5 anni dopo i quali sono tornata in Calabria per stare vicino alla mia famiglia che stava attraversando un periodo di difficoltà. Dopo la laurea ho iniziato a lavorare in alcune cantine, questo primo contatto diretto con il mondo vitivinicolo, che si può definire la “mia esperienza sul campo” tanto cara a noi antropologi, ha fatto nascere e crescere in me il desiderio di fare vino. Il cibo e il vino riflettono la peculiarità dei luoghi e delle loro coltivazioni, per me è importantissimo che le produzioni facciano emergere queste diversità territoriali e di cultura, questo è un atteggiamento da antropologo, l’antropologia è strettamente legata al concetto di diversità. Ed è per questo che ho deciso di vinificare da vitigni, come il Mantonico e il Magliocco, che appartengono alla Calabria. Questo modo di fare agricoltura è il trait d’union che unisce me e le altre due persone con cui ho intrapreso questo progetto, il mio compagno Giampiero Ventura e Pasquale Perugini, proprietario della Masseria Perugini, splendida persona che conoscevamo da tempo.

La Masseria Perugini è un luogo incantevole, ha un’aura particolare, si respirano creatività e bellezza, si fa dell’ottimo vino, ma è anche un’azienda agrituristica; infatti producete olio, pasta, allevate pecore e tanto altro. Parlando con te ho poi scoperto che Dario Brunori (Brunori Sas) ha registrato proprio qui il suo quarto disco “A casa tutto bene”. Alla fine penso che ci sia sempre filo conduttore, nemmeno tanto sottile, che lega idee, creatività, luoghi, anime, che ne pensi?

 La storia della Calabria, proprio per il fenomeno di cui tu parli, ossia aver saltato la fase dell’industrializzazione, è una storia fatta perlopiù da agricoltori, da persone che hanno coltivato la terra, e che grazie alla loro esperienza hanno una comprensione profonda dei cicli della natura. È grazie al loro aiuto e ai loro racconti che ora sto, anzi stiamo, imparando sempre di più su questo mondo; ad esempio a capire qual è il periodo giusto per seminare il grano o per raccogliere le olive, perché come hai detto giustamente tu in Masseria produciamo anche olio e pasta (La Masseria è anche ristorante e b&b il che rende possibile assaggiare i nostri prodotti direttamente in loco). Per me il coltivare è da intendersi come pratica di produzione ma anche e soprattutto come qualcosa che crea cultura e senso di collettività, il cibo e il vino si definiscono importanti fattori di aggregazione sociale. Mi piace pensare alla Masseria come ad una comunità sempre mutevole di persone, che pur vivendo temporaneamente da noi, attraverso le proprie azioni, il proprio apporto culturale definisce un nuovo senso del luogo. E spero che sempre di più riesca ad essere un posto capace di generare e supportare processi legati al fare cultura. Un luogo dove anime affini possono trovare rifugio. E infatti siamo stati felicissimi quando la Brunori SAS ha deciso di incidere da noi il suo ultimo album “A casa tutto bene”, di quel periodo ricordiamo giornate vive durante le quali i musicisti, i tecnici, i fotografi hanno animato il nostro piccolo borgo. Io e Giampiero conosciamo Dario da tantissimi anni; è un’amicizia  che proviene da lontano, Dario e Giampiero erano compagni di stanza durante gli anni universitari a Siena.

Una domanda sulla Calabria non poteva mancare. Terra aspra e oltraggiata, luogo antropologicamente e socialmente molto complesso e immagino che su questo, visti i tuoi studi, potresti farne un trattato. Più mi ci addentro, più conosco questa terra, più vedo che si sta seminando moltissimo, c’è grande fermento, energie positive e voglia di rinascita, naturalmente non solo in ambito enogastronomico. L’impressione e che si stia andando sempre di più nella direzione di quel “pensiero meridiano” di cui parla Francesco Bevilacqua, sono troppo ottimista?

Si concordo con te. Accanto ad una visione di crescita economica, ancora legata ad una volontà di sfruttamento intensivo del territorio, pian piano ne sta nascendo un’altra che abbraccia un’idea di sviluppo che passa attraverso la valorizzazione delle risorse già presenti. E non parlo solo ovviamente di elementi materiali ma anche immateriali: la riscoperta della ricchezza della nostra cultura, dei nostri rituali indissolubilmente legati ai nostri paesaggi, il nostro essere popolo meticcio, infatti a pochi chilometri dalla Masseria Perugini vi sono i paesi Arbëreshë, io provengo in parte da lì, la bellezza aspra e ruvida di quella Calabria che non compare nelle comuni guide turistiche e sfugge al vocabolario corrente. Ecco vivendo qua ho avvertito la volontà diffusa di ripartire da tutto questo, di far emergere geografie per molto tempo silenti.

Fonti:  “Lettere meridiane. Cento libri per conoscere la Calabria” di Francesco Bevilacqua

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