
Le vicissitudini e le difficoltà del Friulano (ex Tocai) sono note: politiche di penetrazione dei mercati (dopo il contenzioso per il nome con gli ungheresi) sbagliate se non scellerate, espianti a favore di vitigni più “vendibili” come la Glera e il Pinot Grigio. Viene da chiedersi se il grande autoctono friulano potrà resistere a questo sconquasso oppure sarà destinato all’oblio. La sensazione è che anche i produttori comincino a crederci sempre meno, ed paradossale se penso che Moreno Ferlat, giovane produttore isontino, al recente Mercato dei Vini dei Vignaioli Indipendenti di Piacenza, ha venduto la scorta di Friulano che aveva portato in pochissime ore, esaurendolo prima di ogni altro vino. Un po’ come era successo per i “Dialoghi sul Collio” ho voluto fare il punto, una sorta di monografia, chiedendo agli addetti ai lavori (giornalisti, enotecari, vignaioli, sommelier, ristoratori) percezioni e prospettive. In sostanza qual è il posizionamento del Friulano e cosa si potrebbe eventualmente fare per rilanciare (proteggere) questo simbolo della viticultura friulana; ecco cosa è emerso:
Angelo Peretti, giornalista, degustatore internazionale, direttore responsabile ed editore del periodico on line Internet Gourmet : Non ho dubbi che il friulano, fu tocai, sia un vitigno di considerevole carattere. Magari difficile da comprendere, talvolta anche da accettare. Io, ad esempio, ho sempre faticato un po’ a entrarci in sintonia con i vini fatti col friuliano. Quella loro potenza, quella loro vena mandorlata, quella loro espressività spesso più adatta al breve e medio periodo che al lungo affinamento, ecco, sono caratteristiche che non mi fanno trovare a mio agio. Però, insisto, è un vitigno di carattere, e offre vini che possono sfoggiare, e talvolta sfoggiano, una grande personalità, e a volte ne sono stato in effetti folgorato. Si potrebbe pensare che se qualche fatica fa il vino che ne porta il nome ad avere il successo e anche il riconoscimento che gli sono dovuti dipenda dal fatto che altri si trovino, come me, a disagio per i caratteri sopra ricordati. Ma non credo che la spiegazione sia questa. Piuttosto, a mio vedere il motivo sta nel solito, consueto, ricorrente fraintendimento del mondo enoico italiano, che crede (molto) più nel vitigno che non nel terroir. Anzi, che molto spesso crede pressoché solo nel vitigno, e si veda il caso del pinot grigio. Il comparto vinicolo friulano e giuliano non fa eccezione. Anzi. La costante da lunghissimo tempo ormai è proprio quella di parlare più di vitigno che di territorio o di terroir. Ho già avuto modo di dirlo: per le stesse eccellenze della regione, il vitigno viene associato quasi sempre a una marca (la Ribolla di, il Friulano di, la Malvasia di, eccetera), quasi mai a un territorio. Quasi che a dare valore al vino sia soprattutto il produttore, e non invece la terra di cui quel vino è rappresentazione. Le vie d’uscita possibili sono poche. La prima è quella di specializzare singoli territori a singoli vitigni, in modo che basti citare un territorio per sapere, implicitamente, che si parla di quella tal uva. Ma la vedo difficile, ché ormai la diffusione è a macchia di leopardo, per il friulano come per altri vitigni. La seconda è quella di accendere i fari sui singoli territori, sulle espressività di terroir, ed oscurare invece un po’ il vitigno, considerandolo alla fin fine per quel che è, ossia uno degli strumenti che il produttore utilizza per rendere la propria idea, appunto, di terroir. Ci sarebbe, a dire il vero, una terza via, che è quella di piantare pinot grigio e glera, sperando che qualche santo aiuti abbastanza a lungo. Ma è una strada che porta il viticoltore e il vignaiolo a fare semplicemente il terzista per conto d’altri. Meglio la seconda, a mio avviso. L’unica via che vedo fonte di possibile successo nel medio e lungo periodo.
Michele Bean, consulente enologico ed agronomico, titolare di Vinomancino: Friulano? Come sai ho lavorato parecchio su questo incredibile vitigno su selezioni massali, cloni, vinificazioni, maturazioni diversificate e quant’altro. Lo ritengo un grande vino da invecchiamento, ma con due distinte vite. Una prima vita fatta di aromi primari e di sensazioni fresche. Nelle interpretazioni degne di nota c’è la sensazione di fiori di tiglio, fiori di acacia, zagara (fiore di arancio), buccia di pompelmo, tabacco avana, pappa reale, cera d’api, marzapane. Una seconda vita poi, con un buco temporale nel mezzo, che dopo apparente decadenza rivela idrocarburi e note di incredibile complessità, mantenendo costante la sua spiccata sapidità e mineralità. Ne ho assaggiati in questi ultimi venti anni di entusiasmanti. Anche vini vecchi con più di trent’anni dimostravano la loro non fragilità nei confronti del tempo, pur non essendo un vino tutto acidità e solforosa come certi prodotti a Nord del Friuli. Le vicissitudini riguardo al nome di questo vitigno in ballottaggio tra Ungheresi e Italiani sono durate a lungo. Hanno fatto in modo di poter fare rumore attorno a questo pezzo di storia del Friuli e non solo. Ma non è bastato per far diventare il Friulano (prima Tocai) un vino conosciuto non solo dalle nicchie. Perché? Il segreto del successo è lavorare bene in modo omogeneo, sempre e su poche cose mirate. In Friuli si è lavorato e si lavora su troppi fronti, su un territorio ridotto ed eterogeneo per natura e produzione. Refosco ad Aquileia, Schiopettino a Prepotto, Ribolla a Cialla e sul Collio, Sauvignon tra Collio e Colli Orientali, Prosecco e Pinot Grigio nelle Grave, Merlot e Cabernet un po’ ovunque; Vitovska, Malvasia e Terrano nel Carso, Pignolo a Rosazzo, Verduzzo a Ramandolo. Sul Friulano e basta chi ci lavora? Tutti e nessuno. Lasciamo perdere poi le innumerevoli interpretazioni. Ne consegue un messaggio della intera regione vinicola confuso, diluito e frammentario. Il Pinot Grigio ha avuto la spinta dei Trentini e noi ci siamo accodati divenendone un serbatoio. Il Prosecco/ Glera è stato portato avanti dai Veneti e noi ci siamo accodati allo stesso modo. E una strada nostra? Quando? Regole semplici: prezzo minimo, tempo minimo di uscita, materiale genetico, vinificazione di base e comunicazione uniforme. O ci sono regole chiare, uniche e semplici o non si va da nessuna parte. Il mercato è il mondo e serve un identità forte e chiara per arrivare lontano. Anni fa ad un convegno sul Prosecco dissi che era sbagliato coltivarlo da noi. Per dare forma bisogna togliere e non aggiungere, almeno così un tuo omonimo, qualche secolo fa, apostrofava. Mi dissero che per fare azienda era necessario investire su autoclavi e vigneti, io risposi che semmai si avrebbe fatto l’azienda di chi produceva inox e che era più intelligente spingere su quello che già avevamo, anziché disperdere le energie. La debacle del Triangolo della Sedia non ha insegnato nulla? E’ un limite culturale? Secondo me per il Friulano c’è una sola via. Ci deve essere un PROGETTO chiaro con basi certe e a lunga scadenza che potrebbe svilupparsi in due modi: La prima via la più trasversale è che il vitigno in questione sia da vedere come base di maggioranza per un taglio che comprenda anche Ribolla Gialla e Malvasia per creare su un Friuli Classico ( non Friuli Classico Bianco perché in oriente il bianco è il colore funebre della morte, mentre il giallo e il rosso sono i colori della vita). Quindi ipotesi minimo 70% di Friulano, massimo 20% di malvasia e massimo 20% di Ribolla Gialla. 12 mesi dalla vendemmia il limite minimo per uscire sul mercato, prezzo minimo imposto, legno non contemplato, macerazione non contemplata. Il taglio consentirebbe di modulare gusti in evoluzione e terroir. Stando attenti a non fare come il Collio Bianco dove la sensazione percepita è che si usino gli avanzi per fare pulizia in cantina. E’ un messaggio distruttivo per il Collio Bianco e lo sarebbe per qualsiasi prodotto. La seconda via potrebbe, seguendo le stesse regole di qui sopra, essere zonare con il semplice nome dei comuni e delle frazioni tutto il territorio regionale (è già fatto) e permettere solo al Friulano di poter portare quel nome. Seguito dal comune e dalla frazione (tra l’altro è già pronto non serve inventare nulla). Esattamente come fanno in Borgogna. Tutti sanno che il rosso di Borgogna è sicuramente Pinot Nero e tutti sanno che il Bianco di Borgogna è sicuramente Chardonnay, ma non c’è scritto. Ammesso che in Cina o in Sud Africa non ribattezzino un area con gli stessi nomi o che non ci sia frode il nome identifica un luogo e non è copiabile. La Doc Friuli consente questo e l’obbiettivo deve essere assolutamente alto. So che nel Collio e nel Carso farebbero resistenza in molti per non dire tutti, ma a questo punto chi non vuole vada per la sua strada. Saranno gli altri a sviluppare la cosa. Chi poi vorrà entrare dovrà pagare una fee importante per compensare il lavoro fatto. Ciò non toglie che i produttori devono poter continuare a fare i vitigni che vendono per fare cassa, ma con l’idea in mente che il futuro deve essere un altro. Se qualcuno volesse prendere questa direzione io sarei disposto a rientrare in regione per aiutarlo a svilupparne il percorso. Sfruttando anche le recenti esperienze di successo con Cerasuolo di Vittoria ed Etna. Il fenomeno Prosecco è nato dalla volontà di 11 o 12 produttori e nulla vieta che si possa rifare in Friuli con altro.
Giuseppe Aldè, vignaiolo socio della cantina Valter Sirk – Goriska Brda: Il Friulano o Sauvignonasse oppure Iacot risulta essere un argomento spinoso e stimolante di pari passo. Spinoso poiché è stato fonte di notevoli polemiche ed ancora lo sarà: indubbiamente molte a ragion veduta ma altre anche fini a se stesse. Stimolante poiché per me è, è stato, e sarà il Re dei vitigni a bacca bianca autoctoni del Friuli. Le polemiche non giovano mai alla propagazione ed espansione di un vino ma credo che la situazione non sia così grave come viene a volte dipinta. Innanzitutto è difficile che possa scomparire più di tanto dai mercati esteri ove purtroppo non ha mai eccessivamente attecchito; certo il cambio di nome non adiuverà nel breve periodo la crescita ma nemmeno la danneggerà più di tanto essendo sempre stato di nicchia rispetto ai vitigni internazionali (ed ultimamente alla ribolla). Ma a parer mio questo deve essere più che un vincolo oppure un ostacolo invece uno stimolo, una svolta di crescita stante il fatto che anche con la nomenclatura scomparsa Tocai non si era fatto più di tanto. Diverso è il discorso per il mercato vicino ove a parer mio esiste si una certa sofferenza ma dettata anche da una certa confusione a livello di caratteristiche organolettiche dei prodotti offerti sul mercato. Si noti bene che a livello produttivo è un’uva difficile tendente a generare riduzioni sostenute se non tenuta molto sotto controllo. Ma comunque a mio modesto parere tornare un po’ indietro nel tempo nel produrre un Friulano vecchio stile non farebbe male di certo alla propagazione dello stesso. Comunque concordo che vini derivanti da uva Tocai fatti in modo corretto, mantenendo inalterate le loro caratteristiche di base non siano assolutamente in crisi ed anzi riscontro nella mia piccola esperienza un maggior interesse rispetto agli ultimi anni. Quindi riassumendo una fisiologica crisi legata alla contingenza generale esiste ma nello specifico riscontro un maggior interesse che potrà solo in un futuro portare solo del bene a questa magnifica uva.
Delphine Veissiere, giornalista, esperta di vini internazionali, editore di The Wine Picker, collabora con oggi.it: Certo che il fatto di non aver cercato di inserire nell’accordo CE-Ungheria del 1993 il nome “Tocai friulano” ha negato la possibilità ai produttori friulani di continuare a designare – per diritto acquisito – un vino in base ad un uso storico dimostrabile, e compromesso i tentativi successivi di recuperare la situazione. Di fatto nell’ambito del nostro Vecchio Mondo non sarebbe stato né il primo né l’ultimo caso, e nel frattempo in paesi come l’Australia e l’America vengono prodotti vini chiamati Tocai friulano. D’altra parte sono stati sprecati ben tredici anni di tempo per mettere a punto una strategia che non è stata definita, col risultato di essere quasi costretti a scegliere all’ultimo momento di conservare la parola Friulano per designare un vino storico prendendo anche il grande rischio di limare – a livello internazionale – la comprensione e visibilità della straordinaria varietà vinicola che esiste in questa regione. Peraltro rileggendo la giurisprudenza e i relativi contenziosi che hanno guidato questa vicenda sembra che la scelta della parola Friulano sia stata effettuata più per motivi economici che non per convinzione. Gli alsaziani che hanno dovuto fronteggiare lo stesso problema per il loro “Tokay d’Alsace” hanno subito cercato di trovare una soluzione che slegasse il legame fra territorio e varietà cercando comunque di preservare l’identificazione vitigno-vino. Fin dal 1993, hanno previsto l’utilizzo in etichetta della denominazione “Tokay-Pinot gris”in luogo di “Tokay d’Alsace”. E’ stata una soluzione semplice ed efficace per abituare il consumatore a riconoscere che il vero vitigno da cui si ottiene tale vino è il Pinot gris come il Friulano è in realtà un Sauvignon verde o Sauvignonasse. Da qui a sostenere che la scelta del nome Friulano sia stata in assoluto una cattiva scelta sarebbe un errore. Di fatto anche in Alsazia hanno i loro problemi: la produzione molto limitata di Pinot Gris in Alsazia a fronte dell’onda mondiale di Pinot Grigio italiano non facilita una qualsiasi visibilità e notorietà internazionale. Bere un bicchiere di Friulano piuttosto che un Pinot Gris dell’Alsazia potrebbe essere percepito dal consumatore finale come un maggior segno distintivo. Peraltro la parola Friulano è molto più facile da capire e da associare ad un territorio da parte di un pubblico internazionale. Si distingue dai soliti vini fatti a base di uve internazionale e gode di un forte legame con il made in Italy. Purtroppo ed in una prospettiva internazionale, la sua produzione – rispetto ad un vino come il Prosecco – è piuttosto limitata in volume e potrà avere successo solo nel caso in cui i paesi del Nuovo Mondo decidano di utilizzare questa parola. Paradossalmente il budget di promozione che viene dedicato all’autentico Friulano – cioè quello giustamente prodotto in Friuli – va a vantaggio anche della diffusione del Friulano australiano così come la promozione del Prosecco avvantaggia anche il Prosecco brasiliano. Fondamentalmente la parola “Friulano” come l’espressione “Tipicamente Friulano” sono brand che identificano la regione italiana ma di certo non la tipologia di vino che avrebbe dovuto chiamarsi Sauvignon verde come il suo cugino – ormai autoctono – Sauvignon Blanc. Non credo quindi che proteggere questa parola sia utile perché è ormai troppo tardi ma che sia piuttosto il momento opportuno per dichiarare in etichetta la varietà autoctona di tale grande vino della tradizione friulana, associando in questo modo il territorio al vitigno.
Alberto Tonizzo executive chef e proprietario del ristorante “Al Ferarut” di Rivignano (UD), una stella Michelin: per quanto riguarda il friulano o tocai, non mi focalizzerei su un problema univoco ma farei un ragionamento più ampio, cioè sulla qualità strategica del posizionamento del Friuli enologico nei mercati mondiali, devo dire che tra i nostri pionieri friulani e coloro che solamente in un secondo momento hanno iniziato ad ampliare i loro orizzonti ci sono parecchi buoni segnali grazie all’imprenditorialità , ma la strada è’ ancora lunga perché la nostra realtà è forte ma ancora giovane e non matura nella chiara definizione dei suoi punti di forza, ovvero nel messaggio che la clientela italiana ma soprattutto internazionale dovrebbe recepire per poterci riconoscere come un marchio di prestigio prima , come una zona turisticamente importante poi, come un vino di altissima qualità’, tutto questo chiuso dentro una bottiglia. Credo che nel Friulano si continuerà a credere malgrado tutto, sicuramente si apriranno nuovi scenari, c’è un forte cambiamento in atto che si rivelerà nel bene e nel male necessario per ristabilire un equilibrio nuovo nei mercati. Pensiamo solamente al paragone tra i disciplinari in Francia ed a ciò che accade in Italia. Un giorno uno stimato vignaiolo mi disse che non necessariamente un vitigno autoctono marca la tipicità di un territorio, verissimo, ma noi dovremo trovare un metodo per coltivare la memoria turistica, fattore fondamentale nel brand marketing, un potenziale cliente deve riconoscere un territorio per uno o più prodotti, il vino ha un ruolo fondamentale in questo, sono certo che i tempi matureranno per una serie di motivi sociali e politici e che tutti gli addetti del settore sapranno come porsi in un mercato che negli ultimi anni è in particolare evoluzione.
Francesco Annibali, agente di comunicazione enogastronomica, critico di Doctorwine e Cucchiaio d’Argento, giudice internazionale: Credo che il Friulano stia ancora pagando parecchio il cambio di nome. Un piccolo terremoto, avvenuto proprio mentre il mercato spostava il proprio interesse verso vini più giocati su acidità, mineralità, sapidità. Gli appassionati hanno fatto due cose: hanno cercato l’acidità in Alto Adige, e hanno ‘trovato’ il Friuli, che nel sentimento è frontiera saggia e silenziosa, in Slovenia. La soluzione è duplice: spingere la promozione su internet a tavoletta; dare una fisionomia meno tirata a lucido al friulano vinificato in purezza, senza scadere necessariamente in vinificazioni in rosso e vini arancioni.
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