Dialoghi sul Collio, seconda parte


Pierpaolo Penco, responsabile dell’Area Wine Business di MIB School of Management e consulente di marketing del vino: A mio parere l’intervento di Marco Felluga si presta ad una riflessione più ampia. Non sono solo i vini del Collio ad aver perso, forse solo in parte, il loro appeal. Sono i vini del Friuli Venezia Giulia che vedono diminuire, ormai da una un po’ di anni, la loro supremazia nel campo dei vini bianchi italiani. Da un lato sono emerse regioni (Alto Adige, Campania, Marche, Sicilia…) che hanno aumentato la concorrenza. Se prima, nelle carte dei vini italiane, c’era ampio spazio per i bianchi del Collio e di alcune altre Denominazioni del FVG, oggi tale spazio si è ridotto e, spesso, è diviso tra pochi marchi affermati. I consumatori, anche i turisti stranieri, vogliono bere i vini della regione ove si trovano, proprio perché in Italia si fa vino, e vino buono, un po’ in tutte le zone del nostro Paese. Molti produttori, anche quelli premiati e celebrati da Guide e punteggi, non sempre hanno dimostrato capacità di leggere il mercato, i suoi segnali, il cambiamento dei consumatori, delle modalità o delle occasioni di consumo e, se vogliamo, anche della stessa critica. Il FVG non fa automaticamente notizia. Bastava leggere gli articoli usciti su stampa e online, quando erano altre le regioni, le DOC o i vini che venivano comunicati come “trendy” o da scoprire. Del FVG si è dato molto per scontato. Si sapeva che qui si producevano vini bianchi buoni e ciò ha forse condizionato molti produttori. Inoltre, quando si è parlato e scritto, hanno fatto notizia soprattutto stili produttivi e scelte enologiche individuali che poco hanno a che fare con la produzione media regionale! Ma, soprattutto, è avvenuto un preciso cambiamento nel mercato e di questo non tutti hanno preso consapevolezza. Ristoratori o enotecari (perché è principalmente al canale horeca che i nostri vini si rivolgono) non fanno più magazzino, cercano marchi affermati, richiedono rotazione. I consumatori, rispetto al “boom” di qualche anno fa, sono in una fase involutiva ed oggi cercano vini più semplici e meno “problematici”, ne è esempio il Prosecco che sta sostituendo una parte anche consistente del vino consumato, ad iniziare dai bianchi strutturati delle nostre zone. Paradossalmente, sono le aziende di pianura, come ha giustamente sostenuto il nuovo Presidente del Consorzio delle DOC FVG, Pietro Biscontin, nel commentare gli esiti del Pinot Grigio International Challenge tenuto recentemente a Corno di Rosazzo, ad essersi dimostrate più reattive, ad aver viaggiato e compreso che il mercato stava cambiando. Aziende mediamente più grandi, con buone capacità gestionali, tecnologicamente all’avanguardia, che hanno creduto prima nell’export, oggi producono buoni vini ad un corretto livello di prezzo. Oggi, infatti, la qualità media non è più appannaggio solo della collina che, forse, ha vissuto un po’ di rendita, avendo per lungo tempo sfruttato il vantaggio competitivo di partenza. Se, a quanto detto, aggiungiamo che la nostra regione non è ancora ben identificata all’estero, in quanto i volumi sono bassi e ormai il 60% del vino è a IGT (non riportando in etichetta un riferimento diretto al luogo di produzione), veniamo sempre più confusi in quel mare che è il “North-East of Italy” in cui i nostri vini vengono classificati da molte riviste internazionali. E all’estero sono altre le regioni che hanno un naturale appeal, tanto più nei nuovi mercati extra-UE. Se il FVG non può fare vini di massa a basso prezzo, la collina (e qui generalizzo), non può competere sui vinelli freschi, tecnicamente ben realizzati, per un pubblico più ampio: deve tornare ad essere il motore dell’eccellenza, reimpossessandosi di quell’ambizione che ne aveva caratterizzato lo sviluppo tra anni ’80 e ’90 e che ha fatto crescere tutta la regione. Come l’Alto Adige ha saputo crearsi un’identità chiara facendo leva sui propri punti di forza, ad iniziare dalla naturale freschezza e aromaticità dei vini, allo stesso modo il FVG e le sue zone collinari, in primis il Collio, deve chiedersi se non sia il caso di focalizzare la propria attenzione, come già avviene per singole aziende, su produzioni ad alto valore aggiunto dallo stile ben chiaro, quello dell’eleganza e della complessità, supportato da dimostrate capacità di invecchiamento, a costo di ripensare l’intera impostazione viticola. Se i produttori medio-piccoli, che potrebbero avere una visibilità nei segmenti alti del mercato, non riescono a creare interesse e immagine e si rinchiudono in una logica del “vendo tutto in cantina”, chi porta il nome del territorio al di fuori della regione sono aziende più grandi, le sole che hanno risorse economiche. E tali Aziende ed i loro brand, spesso di proprietà di gruppi extra-regionali, hanno logiche imprenditoriali che poco si sposano con lo sviluppo territoriale. In un mercato internazionale saturo e ipercompetitivo, senza una nicchia costruita su una forte capacità distintiva, alla lunga si è perdenti. Già stiamo perdendo il traino del Pinot Grigio (che sta diventando un prodotto indifferenziato), il Friulano fa fatica ad affermarsi (indipendentemente dai soldi della promozione regionale, se i produttori sono i primi a non crederci), i vitigni autoctoni possono risultare interessanti ma vanno comunque spiegati e fatti conoscere. Le stesse nostre DOC da sole non bastano, dovendo disperdere la propria limitata capacità promozionale su molti messaggi, a differenza di altre che, invece, si focalizzano su un prodotto o uno stile ben definito che trasmette al consumatore e al trade una più chiara univocità. Ecco che l’appeal del Collio e, più in generale, del FVG risulta indebolito se non c’è un messaggio forte, legato ad un’identità precisa e condivisa. Ed è qui che dobbiamo lavorare assieme.

 Maurizio Gily, agronomo, giornalista, degustatore internazionale, docente, direttore del periodico Millevigne: Di sicuro l’immagine dei vini del Collio ha perso lo smalto degli anni 90, anche se credo che alcune aziende continuino ad andare bene. I motivi sono diversi: 1. Vent’anni fa i vini del Collio erano probabilmente i migliori bianchi italiani, almeno come qualità media, o si contendevano la palma con l’Alto Adige. In seguito altre regioni sono cresciute, soprattutto al Sud, anche grazie agli stessi enologi che hanno fatto la fortuna del Collio, quindi è aumentata la concorrenza su vini bianchi di ottima qualità. 2. La tendenza attuale sui vini di gamma medio alta privilegia il connubio vitigno autoctono-vino monovarietale. Il Collio è spiazzato, perché la sua tradizione è vitigno francese-assemblaggio, anche se vitigni come Chardonnay e Sauvignon sono ormai radicati da così tanto tempo in Friuli, sviluppando anche biotipi locali, che non ha molto senso pensarli come vitigni stranieri, ma così appaiono e questo oggi li penalizza. 3. La carta che si poteva giocare era quella del Friulano, ma secondo me non l’hanno saputa giocare. Si sono dapprima incartati in una battaglia persa in partenza sul nome tocai, anche per colpa dei soliti politicanti e sindacalisti demagoghi e ignoranti e delle loro promesse irresponsabili di aggirare una norma europea che è chiarissima. I produttori hanno vissuto il nome Friulano con rassegnazione, come una sconfitta secca, invece di vederla, in un arco di medio lungo periodo, come un’opportunità. Hanno avuto a disposizione un nome che, questo sì in deroga alla normativa, associa ad un vitigno un nome geografico, e un nome prestigioso, cosa vietata per le nuove iscrizioni; hanno avuto finanziamenti dalla Regione e dalla UE per promuovere il Friulano, che si sono tradotti in una campagna pubblicitaria graficamente brutta e di breve durata, mentre mi pare che sia mancata una strategia condivisa dai migliori produttori, intesa come politica di prodotto, di posizionamento e di comunicazione di contenuti. Può darsi su questo però io mi stia sbagliando perché non posso dire di conoscere così bene il Collio, è una mia impressione. Sarebbe interessante sapere cosa ne pensano Marco Felluga e altri suoi colleghi.

Gigi Brozzoni, direttore del Seminario Permanente Luigi Veronelli e co-curatore della Guida i vini di Veronelli: Ascoltare Marco Felluga è doveroso per tutti perché con lui e Mario Schiopetto nasce il Collio così come lo abbiamo conosciuto e apprezzato. Ora ciascuna azienda va per i fatti suoi, segue proprie strategie, progetti, stili. In sostanza c’è un po’ di tutto e quel rigore stilistico di un tempo si è perso per la strada. Ci sarebbe bisogno di una pausa di riflessione, ma nessuno ha tempo di fermarsi un attimo e non sono più convinto che le mode passino senza lasciare il segno. Vedremo che succederà quando avremo recuperato un po’ di ottimismo e di lucidità.

Roberto Gatti, giornalista, degustatore internazionale, direttore del sito WineTaste: Queste le mie considerazioni: 1) da una parte è vero che in questi ultimi anni 7/8 sono cresciute enormemente regioni vitivinicole quali la Campania, Puglia, Calabria, Sicilia, Liguria, Sardegna, Marche ecc. per le tipologie bianche. Ricordo un vino siciliano prodotto da una cooperativa la Castellucci Miano, coltivato in quota a 900 mt su alberelli di 60/70 anni, impossibile da collocare (alla cieca) in Sicilia. Ma gli esempi che potrei citare sono moltissimi. D’altro canto credo che le nuove generazioni delle famiglie blasonate, si siano un poco cullati sugli allori e non abbiano seguito con attenzione e passione l’evolvere del mercato italiano ed internazionale. Personalmente credo che in linea di massima i migliori bianchi siano ancora nel Collio goriziano, ma oggi a differenza di 20 anni (e più) fa, troviamo eccellenti bianchi in altre parti d’ Italia che non fanno rimpiangere i bianchi del Collio, forse anche con qualche euro in meno sul prezzo di vendita! Queste sono le considerazioni che mi sono balzate alla mente prima di altre.

Michele Bean, consulente enologico ed agronomico : Facendo una breve analisi degli ultimi 20 anni rispondo: sicuramente si, non solo il Collio che è comunque molto limitato (meno di un quarto dell’azienda Settesoli in Sicilia), ma di tutto il Friuli.  Basta vedere le carte dei vini dei ristoranti Italiani e gli articoli o la diffusione dei vini regionali nel mondo. Perchè è successo? Per vari motivi, ma il più importante di tutti è mancanza di un progetto comune che rende l’identità del Friuli confusa e frammentata quando esce dai propri confini. La soluzione può essere il concetto primordiale di Bianco Collio esteso a tutta la regione. Fatto con varietà locali:  7 filari di tocai, 2 di ribolla, 1 di malvasia + prezzo medio minimo imposto nei 10 anni come per Bordeaux. L’occasione ci sarebbe di rilanciare la cosa  con la Doc Friuli  creando come è stato fatto sull’Etna/ Cerasuolo di Vittoria/ Brunello/ Barolo/ Barbaresco/ Soave/Priorat/ Champagne / Bogogna/  ecc.   uno o due prodotti al massimo che possano diventare bandiera regionale, una sorta di Friuli Classico Bianco e un Friuli Rosso con delle regole ben precise.  Di cui avrei un idea ben precisa. Questo non vorrebbe dire che le aziende dovrebbero smettere di fare  i vini monovigna tipo il Sauvignon o il Pinot Grigio o il Merlot e il Cabernet, ma quelli dovrebbero viaggiare per la loro strada.  Questo consentirebbe di poter anche mutare nel lungo tempo lo stile dei vini, se dovesse servire, ma mantenendo il filo continuo con lo stesso messaggio promozionale.  Vi faccio una serie di esempi non vinicoli, ma da cui c’è sicuramente da imparare: La  Volkswagen Golf/ la Porsche Carrera 911/ il motore della BMW,  il bicilindrico/la Coca Cola/ il Windows  o Office di Microsoft/ i prodotti di Apple uno su tutti l’I phone. Tutti hanno sviluppato per anni lo stesso prodotto, ma senza mai cambiargli il nome.  Ogni generazione nuova di prodotto era ed è un prodotto ex novo, ma porta lo stesso nome. Quindi nella pratica è semplice migliorare o adeguare il prodotto al mercato senza però perdere tutto il lavoro fatto nel tempo con la comunicazione.  Gli altri motivi per cui il Friuli e non solo il Collio non vanno sono sicuramente da andare a cercare nelle strutture delle aziende e in quello che era il loro mercato. Ovvero a gestione famigliare e rivolte al mercato interno. Andare sul mercato estero richiede più cose: Persone – che devono parlare più lingue oltre che essere formate. Soldi spesi bene-  la regola del mercato è che almeno il 10 % del fatturato deve essere investito in pubblicità e promozione in modo oculato. Capacità di lavoro sinergico tra aziende-  non siamo predisposti a farlo. Apertura al confronto: quante degustazioni all’anno sfidando i più bravi al mondo vengono fatte tra consorzi e aziende? Poche o nessuna. Sicurezza sul prodotto: non sai mai cosa aspettarti, lo dico perché assaggiando per vari enti capita spesso che oltre la evidente perfettibilità dei prodotti non ci sia un uniformità. L’originalità va bene, ma va inquadrata. Il mercato richiede non solo effetti speciali, ma affidabilità e costanza di rendimento.  In ogni caso per riallacciarmi a quello detto all’inizio, se non c’è un idea comune da diffondere e su cui lavorare quello che ho appena detto non serve a nulla.

Roberto Cipresso, enologo di fama internazionale, scrittore, docente: Marco Felluga avvia una riflessione che se fosse vera non deve spaventare, succede anche da altre parti. In questi anni, in ambito enologico, abbiamo visto tutto e il contrario di tutto e oggi, appurato che di vino è pieno il mondo, possiamo ricondurre il tutto a due semplici categorie: i vini che soddisfano e i vini che emozionano. Quelli che soddisfano sono quelli piacioni, perfettini, quelli che ti fanno dire “Wow…”, spesso hanno a che fare con la varietà; è la varietà che comanda su tutto. Poi c’è il vino emozione quello che ti accompagna in un viaggio, che ti accompagna in un luogo e in questo caso a comandare è l’unicità del terroir, il genius loci alla fine non ha rivali. Unicità del luogo quindi, che non vuole dire che in altre parti del mondo non si possano provare emozioni altrettanto intense, ma alla fine saranno necessariamente diverse, ogni luogo fa storia a se. Ecco che i produttori del Collio, ma anche dei Colli Orientali, hanno bisogno di reimpossessarsi del messaggio dell’unicità del luogo per poi rilanciarlo. Questo può avvenire, ad esempio, attraverso il Collio Bianco, che annulla i vitigni e riporta l’attenzione sul terroir del Collio, inimitabile in nessuna altra parte del mondo. In definitiva non bisogna abbassare la guardia, adesso è il momento di rilanciare; è come quando va male in borsa, invece di vendere tutto è il momento di investire per recuperare quello che hai perso. Onore a Marco Felluga che non si è nascosto ma anzi, assumendo questa posizione, pone le basi per il rilancio del Collio.

Emanuele Giannone, già collaboratore della rivista Porthos, scrive per Intravino: A differenza di un Consorzio di Tutela godo del cold comfort di poter distinguere le questioni di gusto personale dall’interesse di mercato. Il mio, quindi, è un punto di vista molto parziale e poco mercantile, da studioso e degustatore, non da tutore e promotore di comprensibili interessi consortili: l’asserzione che i vini del Collio nella loro generalità abbiano perso fascino e interesse è una riduzione ingenerosa. Non li hanno affatto persi i vini degli interpreti più veraci, tenaci e colti, dove il richiamo alla cultura sottende quelli a storia, tradizione e preparazione tecnica. Parlo di quanti, e non son pochi, ricercano senso e segno dei territori di pertinenza, della loro interpretazione identitaria, dei migliori strumenti di lettura – la scelta varietale a servizio della varietà espressiva – e che tale senso sanno trasfondere nel frutto del proprio lavoro. Non parlo, viceversa, del Collio di Ansoff e Kotler, di quanti rincorrono un ipotetico mercato – più giusto sarebbe parlare di mode, strategie e programmi di marketing, concetto e sviluppo di nuovi prodotti – e la sua volatilità, delle imprese industriali dotate di grande elasticità di processo, votate a produzioni seriali, fungibili e modulari perché adattabili alle priorità indicate da uno stratega delle vendite, da un consulente per la comunicazione, da un wine maker gallonato. Per queste imprese qualsiasi nome, sia esso Collio, terroir, storia, tradizione o tipicità, vale solo quale claim e per l’image, non per la sua pregnanza. Per questi vini a progetto, prodotti d’enologia di scopo e non di servizio, la perdita di fascino e di interesse è ovvia: corrisponde con esattezza alla fase di declino nel modello del ciclo di vita di un prodotto industriale. Ma il problema, in questo caso, non è del Collio, bensì più in generale dei vini che abusano titolo e talento di una qualsiasi denominazione.

 Umberto Gambino, giornalista RAI, degustatore internazionale, coordinatore regionale Guida Vini Buoni d’Italia, direttore del sito Wining : Come tutti noi “addetti ai lavori” sappiamo, dovremmo distinguere fra vini oggettivamente buoni e vini che soggettivamente ci piacciono. Senza troppi giri di parole: nel nostro settore (ambiente) di enoappassionati, enoesperti o “enocosa” (che altro ci inventiamo con il prefisso eno?), molto spesso prevale un punto di vista soggettivo e non oggettivo: ”E’ buono ciò che ci piace!”. Proprio qualche settimana fa ho avuto la felice occasione di degustare 10 buonissimi esempi di bianchi del Collio, a Buttrio, nell’ambito della Fiera regionale dei vini. Ebbene: per il mio gusto personale e anche oggettivamente, li ho trovati tutti uno più buono dell’altro, con qualche piacevole sorpresa. Una per tutte: la longevità di certi autoctoni (meglio dei vini a base internazionale) come per esempio un leggiadro e pimpante Tocai 1995 di Villa Russiz. Tornando a bomba, a mio parere le parole di Marco Felluga andrebbero interpretate. “I vini del Collio hanno perso fascino e interesse”. Sarà forse il punto di vista (molto rispettabile) di un importante produttore che vede perdere “forza” e “credibilità” nei vini tanto amati della propria terra? Forse è una considerazione puramente commerciale la sua che – penso – non abbia ragion d’essere. A mio parere i vini (bianchi in particolare) del Collio godono tutti di ottima salute e reputazione intatta: a Roma li amiamo e un meridionale come me li apprezza fra i migliori bianchi al mondo. A patto però che si privilegino le bottiglie composte da autoctoni (Ribolla gialla, Malvasia istriana, Friulano e lo stesso Picolit) oltre a quei luminosi e affascinanti esempi di Sauvignon che proprio sulle colline del Collio hanno saputo ben attecchire.    La qualità dei vini friulani è perciò indiscutibile. Quello che manca davvero, invece, è il gioco di squadra dei produttori. Serve ai vignaioli del Collio mettersi davvero insieme, mettere da parte invidie personali e piccole gelosie (so anche di famiglie incredibilmente divise in assurde faide commerciali), organizzarsi e “fare sistema”, una volta per tutte. Ai vini del Collio manca come il pane una campagna di comunicazione efficace, realizzata da veri professionisti delle P.R e del marketing, per farli conoscere al meglio non solo in Italia, ma in tutto il mondo: se serve, anche con Tour itineranti nei diversi continenti. Serve a questa fertile zona vinicola un vero, grande evento annuale che faccia conoscere i vini alla stampa specializzata internazionale e ai migliori buyer. Penso – come esempio concreto e di successo – ad una regione come la Sicilia, che da 11 anni organizza un evento di comunicazione itinerante, senz’altro da imitare (in cui si legano territori, vini, gastronomia e turismo) e da cui poter trarre spunto: è “Sicilia en primeur”, finanziato da Assovini Sicilia. Credo che agli amici viticoltori del Collio e del Friuli Venezia Giulia tutto (siamo nel ricco Nord est) non mancherebbero certamente le risorse per mettere in piedi un “Anteprima Friuli” in cui presentare sia le nuove annate sia quelle migliori e già in commercio dei loro straordinari vini.

 Roberto Giuliani, direttore editoriale presso LaVINIum – rivista di vino e cultura online: Sarebbe stato molto utile se Marco Felluga avesse spiegato nel dettaglio il perché di questa sua affermazione. Ad esempio ha fatto un confronto fra Collio e altre zone del Friuli o in rapporto al resto del mondo? Dico questo perché i tempi sono cambiati, forse fin troppo in fretta, oggi abbiamo una Campania che si è attivata in maniera capillare nel promuovere i vini bianchi e rossi dei diversi territori, riscuotendo un sempre maggiore interesse e ricevendo spesso numerose gratificazioni. Abbiamo un Veneto che con il Soave in un decennio è praticamente sorto a nuova vita, elevando fortemente la qualità dei prodotti e facendo una promozione intensa e ben mirata. Abbiamo un Piemonte che ha allargato lo spettro d’interesse con alcuni vitigni bianchi che si sono rivelati eccellenti e stanno riscuotendo un notevole successo, un tempo patrimonio solo dei grandi rossi della regione. Abbiamo poi tutta quella serie di aziende provenienti da Carso-Slovenia che un tempo erano note solo a pochi esperti ed oggi sono uno dei punti di maggiore interesse degli appassionati, grazie anche alla loro presenza sempre più numerosa agli eventi enoici di grido. Un tempo se si pensava ad una regione i cui vini bianchi erano portati a riferimento, era quasi sempre il Friuli a venire alla mente per primo, ma oggi il livello medio dei prodotti vinicoli è fortemente cresciuto in molte zone d’Italia, il marketing è divenuto fattore fondamentale per non rimanere schiacciati dagli eventi, un marketing che deve evolversi, seguire nuove strade e nuove metodologie per fare promozione, e sappiamo bene quanto il web in questo sia fondamentale. C’è poi la crisi profonda che sta facendo i suoi bei danni, soprattutto nel comparto interno, spingendo la maggior parte delle aziende a puntare sui mercati esteri, dove però il cosiddetto “appeal” te lo devi andare a costruire, facendo a spallate con i numerosi competitors non solo italiani. Mi piacerebbe sapere se Felluga nel Collio vede una difficoltà maggiore rispetto alle altre zone della sua regione, nel qual caso farebbe bene ad approfondire il suo concetto, perché io non ho l’impressione che ci sia maggiore interesse per i Colli Orientali, per le Grave o per altre zone del Friuli.

Renato Rovetta, giornalista, degustatore internazionale, direttore del sito Sommelierfriend: Sottolineo quanto sia esemplare per noi italiani avere una zona vitivinicola (dal Collio all’Isonzo ai Colli Orientali) così importante come quella che si estende per quasi 1600 ettari tra magnifiche colline e paesi ancora con un’anima. Questo la dice lunga sulla mia imparzialità nel parlare dei vini del Collio soprattutto. Forse l’espressione usata da Marco Felluga è data proprio dalla sua lunga permanenza a capo di un Consorzio che ha dato molto per farsi conoscere in Italia e nel mondo, e un po’ mi stupisce questa sua piccola vena polemica. Conoscendo alcuni produttori del territorio, sono sicuro che nessuno si è, per così dire “seduto sugli allori”, e so quanto impegno continuino a metterci nel portare avanti un progetto ben definito improntato sulla qualità dei loro vini. Lasciami aggiungere un particolare Michelangelo, per chi come voi, abituali consumatori di vini come il Friulano, la Ribolla Gialla, i grandi Sauvignon, non ultimi i vini premiati a Bordeaux, e mi limito ai bianchi, viene da dire che siete fortunati, potete scegliere vini di buon livello tutti i giorni perché siete sul territorio e lo vivete, viene anche spontaneo dopo un po’ trovare gusti che si assomigliamo, sentori che si appiattiscono, insomma vini fotocopia. Un po’ come potrebbe essere da noi bere Franciacorta tutti i giorni, aperitivo, pranzo e cena, credo dopo qualche tempo potremmo avere le stesse problematiche. Aggiungo poi che la globalizzazione e le Mode non sono portatrici di singolarità eccelse e di questo dobbiamo prendere atto. All’estremo lembo orientale della regione, in provincia di Gorizia e a ridosso del confine con la Slovenia, il Collio è una zona di produzione di pregiati vini ai quali, fra i primi in Italia, è stata riconosciuta fin dal 1968 la Denominazione d’origine Controllata.

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